Roma 27 febbraio – Sin dalle prime battute il popolo del web ha battezzato l’esecutivo che subentra al Conte-bis come “governo di gente che lavora”. Il motivo? Anzitutto il premier Draghi non ha un profilo su Twitter.
Sono passati 14 giorni da quando il Presidente del Consiglio Mario Draghi si è insediato a Palazzo Chigi, il 13 febbraio, con il tradizionale passaggio di consegne del predecessore Giuseppe Conte.
Quello entrante, vale la pena ricordarlo, nasce come governo tecnico. Ma cosa è un governo tecnico? Come lo definisce l’enciclopedia Treccani si tratta di un “governo programmaticamente di breve durata, privo di una solida base politica che nasce… per favorire la ricostruzione di una solidale maggioranza governativa”. In breve una compagine composta da personalità particolarmente competenti in determinati campi ( i cosiddetti “tecnici”), che si affiancano ad altre di estrazione partitica per formare una squadra di governo chiamata ad agire in maniera risoluta ad un particolare momento storico del Paese. Se ve lo state chiedendo, il partito di Mario Draghi non esiste.
Per farla breve, se siete amanti di Pulp Fiction, quello tecnico è un “Governo Wolf”: risolve i problemi.
La tradizione politica dei governi italiani è caratterizzata dallo stile di policy che, con un’analisi macro-istituzionale, può essere definita di tipo reattivo consensuale. Cioè i governi reagiscono adattandosi alle situazioni, senza anticiparle in maniera programmatica, stando ben attenti a mantenere alto il consenso sia della base elettorale che degli altri livelli istituzionali.
In quest’ottica, un governo tecnico viene chiamato a decidere in maniera diversa. Gli si chiede una minima programmazione dell’attività politica di tipo anticipatorio da imporre alla base elettorale. Ciò senza preoccuparsi delle conseguenze sul consenso futuro (cioè: “valutiamo le alternative in base a quelli che saranno i bisogni in un certo lasso di tempo e adottiamo decisioni che abbiano effetti lungo tutto questo periodo, a prescindere dalle possibili conseguenze in future elezioni”). Ovviamente non è così semplice e lineare, ma la teoria è grosso modo questa.
A prescindere dal curriculum di Mario Draghi, tanti commenti positivi hanno riguardato il fatto che il Presidente non sia un abituale frequentatore dei social media, tanto da non avere ne un account Twitter ne tantomeno una pagina Facebook dedicata. Non ha neanche un profilo LinkedIn, ho controllato. Pura eresia!
Ed invece il popolo della rete ha eletto la latitanza social del nuovo premier a parametro di posizionamento: al top per quanto riguarda serietà e voglia di lavorare. Non solo il Draghi primus inter pares ma addirittura alcuni dei suoi ministri sembrerebbero sposare la virtù dell’astinenza da like. La quiete dopo la tempesta socialmediatica della crisi di governo.
Non solo il sentiment dell’uomo comune. Anche numerosi quotidiani e siti d’informazione, nei primi giorni dopo il Giuramento solenne, hanno ripreso e celebrato con entusiasmo la “serietà” del Presidente del Consiglio e della sua squadra. Otto, tra ministri e ministre, quelli tecnici per intenderci, stanno rigorosamente al di fuori dal palcoscenico mediatico.
Se guardiamo alla politica come al mercato, il momento in cui i due processi sono più simili è quello elettorale. I voti sono la moneta sonante con cui si ripagano gli investimenti della campagna elettorale. Se il programma-partito è il prodotto di punta, il consenso e la vittoria sono gli obiettivi di business. Ovviamente a scapito della concorrenza.
Per analizzare il rapporto tra mass media e comunicazione politica bisognerebbe tornare indietro agli anni ’70 del secolo scorso, ma in questa sede è meglio limitarci alla situazione attuale (diciamo la seconda metà dei 2000 appena trascorsa).
Il proliferare delle fonti ha come conseguenza la grande accessibilità dell’ informazione politica. Fenomeno che, a sua volta, ha formato masse di elettori consapevoli, o quanto meno informati sulle vicende di policy strettamente legate al punto di vista delle idee politiche d’appartenenza. In breve, la maggior parte dei partiti, delle ideologie o degli ideali hanno una o più fonti di riferimento mediatica attorno alle quali si sviluppa l’attenzione di un pubblico già orientato in quella direzione: chi vota Lega non compra Repubblica, neanche se si trova in un’edicola più vicina. Un discorso simile si può fare per i social media e le risorse del web.
Per raggiungere in maniera efficace un pubblico di elettori, gli attori politici fanno un largo uso dei social network perchè permettono, tra l’altro, una comunicazione di tipo reattivo. Cioè consentono non solo di fare annunci, ma anche di ricevere istanze da parte della popolazione. Quelle stesse richieste che poi vengono convertite in azione politica, per dare pronta risposta ai bisogni elettorali della cittadinanza.
È la cosiddetta e-democracy: il contatto diretto con i rappresentanti delle istituzioni presuppone risposte dirette e immediate. Un comportamento tipico delle dinamiche di mercato il cui rischio è che si adotti uno stile decisionale immediato e improntato al gradimento, con politiche popolari e di breve periodo a scapito di scelte programmatiche.
Inoltre la ricerca del consenso non è più limitata al periodo elettorale, ma deve essere perseguita durante tutto il mandato. Il gradimento degli elettori è un capitale da preservare e mettere in campo nel momento decisivo, quando i cittadini saranno chiamati alle urne. Un fenomeno noto come campagna elettorale permanente.
Se siete arrivati a legger fino a questo punto potete già trarre una prima conclusione: un governo tecnico come quello presieduto da Mario Draghi non proviene da una fase elettorale e non ha in programma, almeno per il momento, di giocarsi una futura conferma di tipo politico. Cioè non mira a riconfermarsi alle prossime elezioni. Inoltre, pur essendo chiamato a risolvere una situazione di emergenza, quelle che implicitamente dovrà mettere in campo saranno soluzioni programmate nel lungo periodo e basate su decisioni non sempre popolari, a prescindere dal gradimento della popolazione. In poche parole, il governo Draghi non può permettersi di accontentare tutti e d’altra parte neanche ne ha bisogno. Wolf risolve i problemi e poi se ne va sgommando.
D’altra parte, chi resta ancora ben ancorato agli account dei social media? Ovviamente la componente “politica” della maggioranza nonché, soprattutto, l’opposizione.
La conferma arriva proprio da chi alle prossime elezioni vuole correre per vincere. Lo sa bene Giorgia Meloni che resta molto attiva su tutti i canali mediatici, dalle dirette social ai tweet d’assalto contro il neonato governo Draghi, con mascherina tricolore in primo piano e sguardo combattivo. Lo sanno bene anche Matteo Salvini e Luigi Di Maio, che sui social hanno costruito parte del loro consenso e non ci pensano neanche ad abbandonare quei canali diretti che li mettono in contatto col loro pubblico.
Il nuovo Presidente del Consiglio Mario Draghi incarna alla perfezione l’idea del “tecnico” della politica. Non cerca il consenso immediato, rinunciando così ad un ascolto diretto e continuo della base elettorale che, almeno in questo momento particolare non rappresenta, una risorsa da preservare per il futuro. Rinuncia a fare proclami al di fuori dei canali di comunicazione istituzionale perché in fondo non ha bisogno di innescare un processo continuo di azione e approvazione.
La sua leadership in questo momento è tutt’altro che mediatica. Già nel primo consiglio dei ministri del 13 febbraio 2021, Il look del premier Draghi è un tipico “giacca e cravatta” dal gusto montiano, con la mascherina ffp2 quale unica rigorosa eccezione, lo si vede bene sul sito del governo. Siamo lontani dalle maniche di camicia di Renzi e dalle felpe personalizzate di Salvini.
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